Il comunicatore scomunicato:
Iacopone "Pentito" o
"Irriducibile"?
Chiarissimo e caro, professor Franco Suitner,
ho letto con
piacere, e
spero con profitto, il suo libro Iacopone
da Todi (Ed. Donzelli, 1999). Lei scrive che "la materia affrontata (...) è complessa e prevede
competenze diverse, difficili da riunirsi in un'unica persona: sarò
particolarmente grato ai colleghi e ai lettori in genere che vorranno aprire un
dialogo con me."
Qui mi confesso
"lettore in genere". La mia sola competenza può ridursi al divulgare
teatralmente il testo iacoponico e pur qui, senza specifiche competenze
teatrali. In tal modo dissento dalla Sua ipotesi su Iacopone, anziano e malato,
che si arrende finalmente a papa Bonifazio.
Lei scrive iI
Poeta supplicherebbe
al papa di scarcerarlo, nella cosiddetta "seconda epistola a papa
Bonifazio" (67 "Lo pastor del mio
peccato").
Precisamente ai versi:
De star
sempre empresonato, se esta pena non
ce basta,
pòi
firire cun altr'asta, como place al
tuo sedile.
Secondo me, qui
Iacopone dice:
"Se la mia pena al carcere non ti è
sufficiente, tu puoi ferirmi con un'altra lancia ma non con quella della
Scomunica". Dunque non chiede affatto la scarcerazione ma invece
ribadisce, con analoga metafora guerresca, quanto lui già scrisse (55 O papa Bonifazio, eo porto tuo prefazio):
Per
grazia te peto che me dichi:
"Absolveto",
e l'altre
pene me lassi fin ch'e' de mondo
passi.
Poi, se
tte vol' provare e meco essercetare,
non de
questa materia, ma d'altro modo
prelia.
La
"materia" del contendere è sempre e solamente la Scomunica, non la
carcerazione. Quando Iacopone chiede:
che ['n]
me porge la man rogo e sì me rende a
san Francesco,
ch'isso
me remetta al desco, ch'eo receva el
meo pastile.
Qui il Poeta
può pur chiedere
(come Lei scrive) di essere riammesso tra i Francescani per "consumare insieme a loro il loro frugale pasto
giornaliero". Però
quil il Mancini interpreta pastile come "Comunione". Del
resto, Iacopone aggiunge dopo (v. 35):
Deputato
so' êll'onferno e so' ionto ià a la
porta;
e non si andrà all'Inferno per l'esclusione dalla mensa
francescana, ci si andrà per la
Scomunica dall'Ostia consacrata. Certamente, Iacopone si
lamenta di essere escluso, come un lebbroso, tanto dal pasto Eucaristico quanto
da ogni pranzo profano. Perciò non solo dalle mense francescane ma pure da ogni
pranzo fra cristiani (per dire qui, volgarmente: gli "umani" rispetto
alle bestie):
Co'
malsano putulente, deiettato so' da
sani,
né en
santo né a mensa con om san non magno
pane.
L'esclusione da
ogni mensa è
inclusa fra le pene di Scomunica. Sono importanti, i discorsi a tavola: dal
Simposio di Platone alla lettura sacra nelle mense conventuali... fino al valore
comico che Bachtin ne rintraccia in Rabelais. Ai giorni nostri, ci si incontra
per discutere in "cene di lavoro". Si può immaginare che il nostro
Poeta fosse invitato a prender la parola anche a tavola. Si da pur
testimonianza che Iacopone avesse recitato la sua orribile Lauda Insanitaria (81 O Signor per cortesia) al cospetto di Papa e Cardinali. Me li vedo
alquanto brilli, alla fine di un banchetto, che dicessero "Sentiamo Iacopone, che ce ne canti una
delle sue"... e lui che li serviva da par suo con quelli a tastarsi sotto
la tovaglia. Ciò per dire che la mensa offre al poeta un pubblico che sarà
inaccessibile allo Scomunicato. Perciò il Poeta, più che mangiare, qui può
avere l'intenzione di enunciare il suo messaggio: di "comunicare".
Le Goff parla di
"fame del sacramento" nel mondo medievale e
francescano. A noi Moderni parrà contraddittorio che, all'abiura del Corpo sozzo e malvagio, corrisponda l'estrema importanza di quei "segni
sensibili" della Divinità che, per la Chiesa, stanno nei Sacramenti: nell'Acqua di
Battesimo, nel Pane e nel Vino di Comunione, nell'Olio di Oliva al cresimando,
al sacerdotabile, al moribondo... ed al sovrano. Spirito e Materia qui si confondono e, come
Lei scrisse: "la materia affrontata (...) è
complessa e prevede competenze diverse, difficili da riunirsi in un'unica
persona". Forse
la competenza dell'Antropologo qui potrà spiegarci meglio. Col Canettieri,
credo, attendiamo l'Antropologo che possa approfondire l'àmbito sciamanico di
Iacopone.
Inoltre, la
condanna alla Scomunica non implicò soltanto, l'esclusione dal rito divoratorio dell'Ostia
consacrata ma pure l'esclusione da ogni contatto umano e da ogni contratto
civile. Era nullo ogni contratto sottoscritto dallo Scomunicato, che non poteva
esigere i suoi crediti né fare testamento (ogni suo bene, credo, finiva
incamerato dalla Chiesa). Vietato, s'è anzi detto, mangiare o parlare insieme
con lo Scomunicato. Quest'ultimo divieto fu certo il più bruciante al poeta
Iacopone: di tutti gli altri gli sarà importato poco, nel suo amor de povertate, / renno de tranquillitate!
Iacopone incarcerato, non
poteva parlare con nessuno perché era inoltre, scomunicato. (53 Que farai fra Iacovone?"). Pare assurdo che invece, tra
merda e catene, gli fosse concesso l'armamentario di uno scriptorium, perché lui ci trasmettesse i suoi versi temibili. La
mia modesta divulgazione teatrale mette il scena il Poeta che compone, danzando
e cantando, la stessa lauda, al ritmo sferragliante dei suoi passi incatenati
nelle "iette de sparvire". Scrissi pure che il Poeta qui
ritratta il suo disprezzo per "le
ipocrite mustranze" dei Flagellanti che, al ritmo della frusta, cantavano e danzavano
per strada un teatro mistico, dalle oscure radici pagan-popolari. Qui invece,
Iacopone si trova anche lui, a danzare cantando. Lo sente il carceriere, che è
tenuto a rapportare parola per parola al superiore. E così per via gerarchica,
la poesia poi si registra per iscritto: negli atti giudiziari relativi a
Iacopone. Finché ogni atto finisce sulla stampa, come si direbbe oggi. Questa
mia ipotesi è puramente teatrale.
(Inoltre mi
consenta una parentesi, mio caro e chiaro Suitner. Secondo me, Lei equipara troppo il nostro
Poeta a un professore o a uno scrittore, sulle scorte del Tresatti (in sua nota
a 81 "O Signor per cortesia") che se lo immagina "prendere la penna a testimonio del concetto". A parte forse, quei cosiddetti
sermoni didattici, che Iacopone avesse mai composto per istruire frati, io
crederei piuttosto che tutta la poesia di Iacopone sia composta oralmente più
che scritta o, diciamolo, mentale.
La
Mente
per un mistico, è sempre spazzatura e, all'epoca, lo scritto era un articolo di
lusso. Lo immagino aborrito dal nostro Poeta, sempre fanatico di
"Povertate". In generale, credo che la poesia non sia "concetto
formulato e scritto" me che sia piuttosto "respiro e voce" del Corpo, sozzo e malvagio quanto lo si dica.
Mettendo in
scena la
seconda lauda carceraria (55 "O papa Bonifazio, eo porto il tuo prefazio"), mi sono immaginato Iacopone a
compilare un modulo di "domandina". Con questa, ai nostri giorni, il
Detenuto indirizza alla Direzione Carceraria un documento che, di necessità,
sarà conservato in archivio. Insomma, Iacopone avrebbe usato l'espediente
burocratico dei dissidenti sovietici, che così registravano le angherie patite.
Quando l'Urss poi si dissolse, ne rimasero gli archivi, a disposizione
dell'umanità. Così sarà successo pure per Iacopone... altra ipotesi teatrale,
lo confesso.
Torno alla
terza lauda carceraria (67 "Lo pastor del mio
peccato"),
di cui contesto la Sua
interpretazione di un "pentito Iacopone", arreso infine a chiedere
clemenza. Secondo me, Lui non concede nulla, più di quanto abbia concesso nel (55) prefazio precedente: sembra ancora, che ritratti solamente la
sua firma nel proclama di Lunghezza. Cioè riconoscerebbe Bonifazio come papa...
"Tale qual è, tal è". In quanto papa e qualunque
egli sia, ha il potere di imporre o revocare la Scomunica perché è il
Vice di Cristo. Infatti "Lo pastor (67), a parte i suoi dettagli
conclusivi sull'empiasto burocratico, non è altro una
una serie di parafrasi evangeliche, dove Cristo perdona e guarisce. Dunque, il
suo Vice dovrebbe fare altrettanto, rispetto, alla Scomunica di Iacopone. Lei
qui, Suitner, non ci trova sarcasmo né ironia, io non ne sarei sicuro. Più
oltre, in conclusione, avanzerò un'ulteriore ipotesi, indubbiamente agiografica
e anagogica.
Escluso che che
al Poeta detenuto
fosse concesso l'occorrente per scrivere, si può pure immaginare che qualche
influente suo ammiratore gli ottenesse per tre volte, l'autorizzazione di
indirizzare una supplica al papa. Iacopone, da poeta consumato (o da "intellettuale nato", come Lei preferisce) avrebbe
approfittato di tutt'e tre le insperate occasioni per scrivere e diffondere i
suoi versi... tanto infatti, è successo.
Alla prima (53 Que farai), il Poeta non cura di rivolgere suppliche. Menzionata la sua causa (Pellestrina), espone subito le condizioni infami della sua
detenzione. Poi riassume, stravagando a modo suo, le attenuanti del suo
crimine. Queste stanno nel conflitto tra i frati Spirituali, sposati a Povertàte,
e quelli Conventuali, assetati di potere clericale. Infine Iacopone dichiara di
non chiedere sconti di pena anzi, ringrazia con santa arroganza per
l'opportunità di fare ulteriori penitenze. Tutto questo presupposto
"modulo di supplica" sarà compilato come si deve, soltanto alla fine.
Qui Mancini evidenzia la Firma
(Iacovon), l'Indirizzo del Mittente (en Todo) e il presupposto Destinatario: la Santa Sede (en cort'i Roma). Ma il Poeta rivela le sue vere intenzioni, augurando
al suo canto di espandersi assai oltre: "en
tribù lengua e nazione".
Alla seconda
occasione di Supplica, Iacopone trasmette quel "Prefazio" che, formalmente si rivolge a
papa ma, come supplica, è davvero indisponente.
Alla terza
occasione di supplica, forse raccomandato di contenersi, il Poeta si dimostra rispettoso e
più preciso. Rammenta di avere già inoltrato supplica (scripsite nel meo libello), senza averne alcun riscontro.
Fà notare quanto scandalo la sua detenzione provochi nell'Ordine dei
Francescani (la mea matre religione fa gran planto
con sua scorta).
Poi non riesce a contenersi, come al solito: approfitta del testo evangelico per enunciare quello che più
gli interessa: di fare il poeta. Vorrebbe ancora cantare, ad alta voce, la sua
fanciullesca lode ad Iddio "ch'eo pòzza
cantare ad voce quello
osanna puerile".
E questa piena voce, salta fuori dal miracolo
evangelico del cieco, cui resa resa la vista ma qui parla, incongruamente, come
fosse stato muto.
Più propriamente, Iacopone canterà
del sordo-muto
guarito da Gesù; "e l'audito me sse
renda e sia sciolta la mea
lengua, che legata fo con 'Sile'.
Che io possa si
ascoltare ma che, sopra tutto io possa parlare di nuovo: sia disciolto il nodo "Sile" (stai zitto e silente!) che la Scomunica impose al
Poeta. Il quale infine implora (o dice di implorare) che il suo pianto di
anziano (senile) si riconverta in canto: "ch'en cantare torni el luge
che è fatto del sinile." Qui noi si potrebbe dire: che il
pianto si converta in "diritto alla poesia" se, in questi tempi oscuri, ciò
non facesse ridere o affilare la scure dei carnefici.
Tralasciando le allusioni riscontrate, tutta questa
poesia di Iacopone sembra davvero una supplica al papa. A questo papa: "bruttura
de peccato", e
"Lucifero novello". Sia come sia, in quanto papa e
vice, qui lo si
paragona al Cristo che miracola. Qui mi azzardo nuovamente a
interpretare Iacopone: direi che Bonifazio, insieme a Celestino e Iacopone,
è pure lui, venuto al paragone... oro o rame, filo
o stame? Sarà
superfluo attendere il referto dell'esame: Boninazio è una merda, secondo
Iacopone.
Torno infine
alla Scomunica
dal rito della Comunione, la
Scomunica di cui, il Poeta chiederebbe la revoca. Iacopone è
poi davvero, affetto da quella insaziabile "fame
di sacramento",
asserita da Le Goff nel suo "Francesco
di Assisi"?
Nel suo racconto mistico, Iacopone si unisce col dio Cristo in Comunione
erotica più che alimentare. L'amor divino è cantato di frequente come erotico,
in Europa altrettanto che in Oriente, Vicino e Lontano, ma direi anche per
l'Africa (di Americhe non so). L'Anima Sposa di Iacopone, col divino ci va a
letto, più che a tavola con Cristo imbandito come cibo: Il Poeta ci canta il
Sacramento dell'Eucarestia più raramente che l'alcova mistica.
Iacopone ci spiega il Pater Noster distinguendo le
tre specie di pane
quotidiano da chiedere al Signore (22 En
sette modi, co' a mme pare). Innanzitutto il pane della devozione, che mantiene le anime in
erotico abbraccio con Dio:
El primo
pan ne ten con Deo
abracciat'en
delettanza.
Poi il pane consacrato sull'altare, che ci fa
socializzare con il Prossimo:
l'altro
al prossemo n'à legati
en la
fedele congreganza.
Infine, il pane materialmente detto, che mantiene i
corpi in vita:
l'altro
sì ne dà sustanza
ne la
vita che menamo.
Perciò il divieto di Eucarestia, per Iacopone sarebbe
letteralmente "Scommunicazione": noi si direbbe assenza
di comunicazione,
di collegamento sociale. In merito, ho avanzato un'ulteriore ipotesi arbitraria,
ed anagogica più che teatrale, in un mio libello divulgativo ("Il Beato Maledetto, I. da T."
Ed. Strade Bianche di Stampa Alternativa, 2016, anche online). Mi limito a riassumere: in 53 "Que farai fra Iacovone...?" , il Poeta ci canta tre
visioni (o allucinazioni). Queste sono il canestrello, che sembra contenere cinque
pani belli interi, il pesce en peverata e il taglier de sturione. 5 pani e 2 pesci in totale: se ne trovano altrettanti
nel miracolo di Cristo della Moltiplicazione, che è simbolo attestato dell'Eucarestia.
La catina che scende dall'Alto, e le
croste di pane dal canestrello appeso come Cristo, non
potrebbero essere (anagogicamente) il Calice e l'Ostia? Con i quali Iacopone si
amministra da sé la negata Comunione, in barba al papa e a tutt'e quanti i
preti, mentre ristabilisce la comunicazione: emettendo e trasmettendo quei tre
suoi canti che in effetti, abbiamo ricevuto... diremmo per miracolo.
Abbia pazienza
e saluti iacoponici
LG
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