prossimo spettacolo: Giovedì 4 Agosto
"Anima e Corpo" di Jacopone da Todi
Lauda M 7: "Audite una 'ntenzone"
Siccome certo Pubblico mi ha confessato: "Mi son tanto divertito ma non ho capito niente",
questa sera premetto allo spettacolo qualche spiegazione. Lo faccio per
chi oltre all'Emozione, già più che sufficiente, se ne volesse fare
pure una Ragione. La Ragione non è sempre necessaria: tutto si ascolta
prima con il cuore, senza pensare troppo al significato... e non solo a
teatro.
Comunque cercherò di introdurre l'Argomento e pure di
spiegare, parola per parola, quanto dice Jacopone: tutto questo si
intitola DIVULGAZIONE. In fine aggiungerò certe mie DIVAGAZIONI che
parranno fuori luogo agli Studiosi... però che se ne facciano anche loro
una Ragione!
DIVULGAZIONE
"Ascoltate un battibecco tra Anima e Corpo,
battaglia durissima fino alla morte (lo consumare)."
Questo dice il ritornello, che torna ossessivo per
22 strofe e che andrebbe cantato in coro dal Pubblico. Guardate che
l'Attore, quando non senta li Coro, potrebbe interrompersi e lasciare la
scena, senza stare a importunarvi per la questua.
La "batàlia dura troppo" di stasera, richiama il ritornello della settimana scorsa: "vita penosa, continua batàglia / con quanta travàglia, la vita è menata!"
(M 58). Jacopone è un pessimista? Ma ci ha cantato una settimana fa che
"penosa" è soltanto la "vita fallace", quella che illude la "gente
accecata" oscurandogli il "bene del mondo e nel mondo". Questo bene
sarebbe infinita ricchezza, che il Povero soltanto arriva a possedere.
Così almeno l'ha cantata Jacopone (M 47), proprio a Voi, giù da Mattia,
per il gran pranzo della Ternità, quando il nostro Teatro non esisteva
ancora.
Pena è "dolore, molestia, stento"... ma sarà pure
"castigo" di àmbito penale. Infatti questa sera, si esordisce evocando
la "grave sentenza" che condanna alle pene dell'Inferno. Il mezzo per
sfuggirne è di "fare penitenza", scontando in anticipo il castigo
infernale. Anima dice: "Facciamo penitenza" ma è ovvio che ogni pena sia
riservata a Corpo... e lo vedremo subito. Corpo si ribella sempre,
aggravando le sue pene in un crescendo frenetico di punizioni. La pena più frequente, e sempre più pesante, si chiama disciplina... ma attenti, che vuol dire solo "frusta". Anche se, letteralmente, disciplina deriva da discepolo. La frusta infatti, fu un sussidio didattico frequente ma tuttora è diffusa come sussidio erotico. Varrà pure la... pena di rammentarlo.
In realtà e sulla scena, qui recita sempre un
singolo Attore: c'è solamente una auto-disciplina... e anche l'Attore si
frusterà da sé. Ai tempi del Poeta, impazzava il movimento dei Flagellanti (auto-flagellanti): si spostavano in massa, sempre a giro in processioni. Ma diciamo anche in tournèe,
perché avevano pure un aspetto teatrale. Si cantava, si ballava e
recitava al ritmo delle fruste: ciascuno per sè... e per tutti il
flagello di Dio, ritenuto imminente. L'argomento si voleva religioso,
perché allora la pensavano così, ma qui cantava il Popolo in linguaggio
Volgare, non più il Prete in Latino. All'epoca è un progresso perché da
quei pazzi rave, scaturisce una fonte importante per la nascente Letteratura Italiana.
Ma perché poi, flagellarsi, in massa o a casa propria?
Sembra chiaro: per redimersi. In caso di peccato o di delitto, ogni
castigo serve a rieducare il reo... sta pure scritto nella Costituzione
(A. 37) e nel motto degli Agenti di Custodia carcerarî: "Vigilando
Redimere", pur scritto in Latino.
Tornando alla Volgare poesia di Jacopone, se non ci
fosse nulla da punire non ci sarebbe Anima o/o Corpo. Infatti quelli
che abitavano nell'Eden si accorsero del Corpo, ne ebbero vergogna e lo
coprirono (Gen. 3,7), soltanto dopo avere conosciuto la differenza tra
Bene e Male (Gen. 3,5). Allora dentro all'Homo, nasce il gioco delle
parti fra Giudice e Reo: quello giudica e punisce, questo forse si
redime ma soffre sempre e si ribella spesso.
Infine, quale colpa potrebbe avere il Corpo? Fu creato per
godere e non faticare troppo, mangiando, bevendo, facendo all'amore... e
ringraziando di tutto il Creatore. Da qui nasce la colpa: di
sostituirsi a Dio e non ringraziare più. Questo però è colpa della Mente
che pure sta sera, si presenta ancora in scena come Anima... ma non è
la stessa storia e magari si racconta un'altra volta.
Ora coraggio, e cantiamo tutti insieme il Ritornello. L'aria è più o meno quella del celebre Inno dei Malfattori.
Audite una 'ntenzone, ch'è 'nfra l'anema e 'l corpo;
batàlia dura troppo fine a lo consumare!
Anima dice a Corpo: "Mettiamoci a soffrire, per sfuggire alla condanna dell'Inferno e guadagnarci il Paradiso (gloria), che è tanto più piacevole! Sosteniamo ogni aggravio con piacere d'amore"
L'Anema dice al Corpo: "Facciamo penetenza,
ché pozzamo fugire quella grave sentenza
e guadagnìm la gloria, ch'è de tanta placenza;
portimo onne gravenza con delettoso amare!".
Corpo: "Quanto sento mi conturba. Mi nutro di piacere, non lo potrei patire. Sono pure deboluccio di cervello "(lo cèlebro haio dèbele), potrei impazzire presto. Non se ne parli neanche!"
Lo Corpo dice: "Tùrbone d'esto che t'odo dire;
nutrito so' en delicii, non lo porrìa patere;
lo cèlebr'haio dèbele, porrìa tosto 'mpazzire;
fugi cotal penseri, mai non me ne parlare".
Anima: " O Corpo malvagio (sporco, ingordo e lussurioso), sordo alla mia salvezza! Imparati 'sta musica (emprende esto descordo)... della nodosa frusta che ti farà ballare (t'è ci òpo a danzare)". (E' d'uopo, si può dire dal Latino opus est: "è opera" da farsi, faccenda necessaria. Questo opo poi ci torna, rammentarlo).
"Sozzo, malvascio Corpo, lussurioso e 'ngordo,
ad onne mea salute sempre te trovo sordo;
sostene lo fragello d'esto nodoso cordo,
emprend'esto descordo, cà 'n t'è ci òpo a danzare!"
Corpo si rivolge al Pubblico: "Aiuto, vicini! Qui Anima mi uccide! Mi ha ferito (alliso), e frustato senza ragione: (disciplinato a torto). Starò in un perpetuo lutto." (Corrotto: è un piagnistèo, cioè il compianto funebre rituale. Segnarlo perché in tutto Jacopone, di corrotti se ne cantano almeno 17, mai nessuno di politico).
"Succùrrite, vicine, cà ll'ànema m'ha morto;
allis' e 'nsanguenato, disciplinato a torto!
O impia crudele, et a que me hai redutto?
Starò sempr' en corrotto, non me porrò alegrare".
Anima: "La tua 'morte' è troppo corta, non mi piace. Ho deciso di farti questo esperimento (spermento): ti tolgo ogni piacere dai tuoi cinque sensi."
"Questa morte sì breve non me sirìa 'n talento;
sòmme deliverata de farte far spermento:
de cinqui sensi tòllote onne delettamento
e nullo placemento te haio voglia de dare".
Corpo: "Ma senza il piacere dei sensi, me ne starò tumefatto ed infermo (staràio enflato e tristo), pieno di malanni (encresciminti)... e toglierò letizia alle tue meditazioni (pensaminti). Meglio che se ne penti, piuttosto che provarci".
"Se da li sensi tòllime li mei delettaminti,
staràio enflato e tristo, pleno d'encresciminti;
torròte la letizia ne li toi pensaminti;
megli'è che mo te pente che de far lo provare".
Anima: "Togliti la camicia e indossa il cilicio!" (Celizzo è sottoveste, ruvida e penitenziale, tuttora in voga per l'Opus Dei.) "La penitenza vieta che tu abbia mollezze (delizzo: delizia) "Per premio (guigliardone), ti dono questo nobile palio (pannizzo), che pensai di ammantarti con pelle di Scrofa (de coio scorfizo, a setole ispide)."
"La camiscia espògliate e veste esto celizzo
(la penetenza vètate, che non agi delizzo),
per guigliardone dònote questo nobel pannizzo,
cà de coio scorfizo te pensà' amantare".
Corpo: La rescasti (aricàstela) dall'inferno, questa veste dolorosa, l'avrà tessuta il diavolo con le penne dell'Istrice (Sponosa, noi si dice la Spinosa). Ogni penna mi morsica e artiglia come una una vespa." (Che in realtà pungerebbe ma è licenza poetica). "Non ci trovo alcun sollievo o riposo (posa)."
"De l'onferno aricàstela esta vesta penosa,
tesséola lo diavolo de pili de sponosa;
onne pelo me mòrceca como vespa ardigliosa,
nulla ce trovo posa, tanto dura me pare".
Anima: "Ma riposati nel letto, giaci in questo graticcio". (E' una ruvida stuoia di vimini, per seccare la frutta). "Guarda che bel cuscino di pagliccio". (E' un mucchietto di paglia tritata alla trebbia). "Pigliati per coperta questo mantellino". (Non è un piccolo mantello ma la misera coperta ad uso del somaro: "adùsate co 'l miccio). "Tutto questo ti parrà una delizia, rispetto al peggio che ti voglio fare."
"Ecco lo letto, pòsate, iac'enn esto graticcio;
lo capezzale, aguàrdace, ch'è un poco de pagliccio;
lo mantellino còprite, adùsate co 'l miccio!
Questo te sia deliccio a quel che te vòi' fare".
Corpo si rivolge al Pubblico: "Guarda che letto morbido (mòrvedo) e quale bel piumino! Ci vedo dentro sassi rotondi di fiume (de fossato: sono il peggio che Anima voleva). Da che parte mi ci giro (vòlvome), mi ci rompo le costole, son tutto fratturato, non posso riposare(pusare)".
"Guardate a lletto mòrvedo d'esta penna splumato!
Petre rotunde vèioce, che venner de fossato;
da quale parte vòlvome, ròmpomece el costato,
tutto so' conquassato, non ce pòzzo pusare".
Anima: "Alzati Corpo, esci dal tuo sonno (scionnécchiate), che la campana chiama a matutino"
(è la preghiera monastica alle 3 di notte). Ti impongo nuove leggi a
partire dal mattino. Impara questa strada che dovrai sempre usare.
"Corpo, surge lèvate, cà sona a matutino;
leva su[ne] scionnécchiate! Enn officio divino!
Lege nove empònote pertine a lo maitino;
emprend'esto camino, ché sempre 'l t'è òpo a usare".
Corpo: "E come posso alzarmi, che non ho neanche dormito. Sarà pericoloso, non ho ancora digerito (paidito). M'è uscito un reumatismo (règoma), dal freddo che ho patito. Ma avanza ancora tempo, si può recuperare."
"E como surgo, lèvome, che non haio dormito?
Degestïone guàstase, non haio ancor paidito;
escursa m'è la règoma pro frido ch'e' ho sintito;
'l tempo non n'è fugito, pòse recoverare".
Anima: "E dove la studiasti, tutta questa medicina?
Per la tua negligenza, ti do un colpo di frusta. Se aggiungi una
parola, io tolgo dal tuo pranzo la cocina." E' piatto caldo, uscito di cucina: minestra di verdure, con forse un po' di lardo e qualche fagiolo. Nella cocina, ci si inzupperebbe il pane. "Questo digiuno è il farmaco per la tua malattia (malina)."
"Et o' staìste a 'mprèndare tu questa medecina?
Per la tua negligenzia dòtte una disciplina;
se plu favelle, tòllote a pranzo la cocina;
a curar tua malina quest'è lo medecare".
Corpo: "Ma che bel pranzo di pane saporito! E' nero
duro e àzzimo... non lo rosicchia un cane. Non riesco ad inghiottirlo
tanto mi sa cattivo. Via, dammi un altro cibo, se vuoi tenermi in vita".
"Or ecco pranzo ornato de delettoso pane!
Nero, duro, àzzemo, che no 'l rôsera 'l cane.
Non lo pòzzo engluttire, sì rio sapor me sane;
altro cibo me dàne, se mme vòl' sostentare".
Anima: "Per quello che tu hai detto, dovrai lasciare il vino, e neppure per cena mangerai di cocino. Se osi parlare ancora, ti aspetta per lo meno una pesante frusta che, non ne potrai sfuggire (mucciare)."
"Per lo parlar ch'hai fatto tu lassarai lo vino,
et a pràndio né a ccena non magnarài cocino;
se plu favelle, aspèttate un grave desciplino;
questo prometto almeno: no 'n te porrà' mucciare".
Corpo medita tra sè: "Mi ricordo una donna che era bianca e rossa, vestita tutta morbida, che meraviglia! La sua bellezza mi aguzza (assuttiglia) il pensiero, mi viene tanta voglia (multo te me simiglia)
di poterle parlare" (... D'amore, è sotto inteso: Non c'era altro
motivo per rivolgersi a donne che questo "far l'amore", cioè di parlarsi
amorosamente).
"Recordo d'una fèmena ch'era bianca e vermiglia,
vestita ornata mòrveda ch'era una maraviglia!
Le so belle fattezze lo pensier m'assuttiglia;
multo te me simìglia de poterli parlare!".
Anima: "Ora beccati il premio per questo che hai
pensato. Ti ritolgo il mantelluccio da somaro per tutto quest'inverno.
Lascia le calzature, per il tuo folle pensiero (cuitato, (cogitato). Ti darò tante frustate da spellarti vivo."
"Or attende a lo premio de questo ch'hài pensato:
lo mantello aritòllote per tutto esto overnato,
le calciamenta làssale per lo folle cuitato,
et un desciplinato fine a lo scortecare".
Corpo accende l'estrema vertenza: "Bere acqua mi fa male, mi fa cadere nell'idropisia. Ti prego di rendermi il vino per la tua cortesia". (Che non corrisponde ancora a neutro "per favore" ma vuol dire "nobile generosità" e pure vita elegante e spendacciona: si rammenti in M 81 Povertaria e in M 58 O vita...). "Se tu mi mantieni sano, mi reggerò in piedi (girò ritto per via). Se cado in malattia (enfermarìa), ti toccherà badarmi."
"L'acqua ch'eo beio nòceme, caio 'n etropesìa;
lo vino, prego, rènnilme per la tua cortesia!
Se tu sano consèrveme, girò ritto per via;
se caio 'n enfermarìa òpo te m'è [a] guardare".
Anima: "Visto che l'acqua nuoce alla tua infermità e
a me il vino nuoce alla mia castità...lasciamo vino ed acqua per la
nostra sanità! Patiamo ogni mancanza(necessetate), per conservarci sua retta via.
"Da poi che l'acqua nòcete a la tua enfermetate
e a mme lo vino nòceme a la mea castitate,
lassam lo vino e l'acqua per nostra sanetate,
patiam necessetate per nostra via servare".
Corpo: "Ti prego, non uccidermi, non domanderò più nulla. Ti giuro di non fare più proteste. Vedo che disputare (entenzare) mi si ritorce a danno. Mi voglio guadar bene dal cadere in multa (che non càia nel banno)".
"Prego che no m'occidi, nulla cos'ademanno;
en verità promèttote de non gir mormoranno;
lo entenzare vèiome che me retorn'a danno;
che non càia nel banno vògliomene guardare".
Anima: "Se tu vorrai guardati del tutto
dall'offendere, sarò portata a darti ogni sostentamento e mi vorrò
guardare da ogni tuo malanno (encrescemento). Sarà nostro piacere (delettamento), salvar la nostra vita". (Qui Anima può intendere "la vita eterna" ma Corpo è riuscito a tenersi quella terrena).
"Se te vorrai guardare da onne offendemento,
siròte tratta a dare lo to sostentamento
e vorròme guardare da lo to 'ncrescemento;
sirà delettamento nostra vita salvare".
Il Poeta conclude: "Qui vedete il confitto (prèlio), della
condizione umana. Ce ne stanno molti altri, che non ho neanche toccato.
La fatta breve per non annoiarvi. Finisco la poesia: (trattato: componimento) e a questo punto, lascio." (C'è "ben altro", s'è capito).
Or vedete el prèlio, c'ha onn'omo nel suo stato;
tante so' l'altre prelia, nulla cosa ho toccato;
ché non faccia fastidio, hàiol abriviato.
Finesco esto trattato (e)n questo loco lassare.
DIVAGAZIONI
Così inizia Jacopone: "Audite una 'ntenzone!".
"Audite!" è il tipico richiamo dell'Attore di strada medievale: quel
Giullare che attira il suo Pubblico pubblico a un volgare spettacolo,
condito di lazzi e sonagli, di bastonate e di oscenità corporee.
"Audite!" ma che cosa? "una entenzone". Sappiamo che cos'è una singolàr
tenzone: il duello. Questa Entenzone è un duetto teatrale tra Anima e
Corpo. Sta nella tradizione popolare del Contrasto o Rispetto tra
opposti: il Giovane e il
Vecchio, l'Ammogliato e lo Scapolo, Campagnolo e Cittadino, Inverno ed
Estate... e così via. Mi accadde di udire un Contrasto, li per lì
improvvisato, tra "Règa" e "Come
Ine": tra il presidente Regan degli Usa e l'ayatollah Komeini
dell'Iran. Un dialogo che all'epoca, era impensabile... ma la Poesia si
pone pochi limiti.
Allora c'era un poeta Rustico che interpretava
Regan, quell'altro che faceva Komeini e ciascuno esponeva le sue proprie
ragioni. Mi pare che ci fosse lieto fine, accadde di certo nel secolo
scorso, a Sorano in Maremma, in un evento che sarebbe storico e con lo
zampino del Baraghini. Dove sia finito il testo di quella "entenzone"?
Qualcuno poi lo scrisse, come avvenne in qualche modo a Jacopone? Molti
poeti Rustici non sono in grado di formulare quel testo che hanno appena
finito di cantare. Se ne rammaricava il Tommaseo, con il D.
G. Rossetti, cui riuscì poco di registrare i canti di Beatrice da Pian
degli Ontàni, popolana analfabeta e chiamata "la Poeta", che si
dimenticava sempre tutto quanto, come certi invasati del Vudù. Sì che
oggi, basterebbe un Smarfone però in questo frattempo, tutta quella
Poesia quasi si estinse... per lo meno in Occidente, a quanto pare.
Torniamo alla Entenzone e a ciò che si pretende che
ci fosse stato prima: al discorso assoluto e solitario del Logos
primordiale. Questo asserito Big Bang verbale all'inizio di tutto, si
divide quasi subito tra due voci antagoniste. E dopo Satana: la tragedia
greca, i dialoghi platonici, la dialettica di Hegel o la democrazia
parlamentare. Chi mai avrà ragione, la maggioranza o l'opposizione?
Nessuno e tutti e due: la Ragione è ormai divisa, condivisa o suddivisa.
Ma in principio, la Ragione è fatta apposta per discriminare e per
condannare il suo nemico acerrimo, che è sempre la Follia, secondo lei.
Certe volte, le concede pure un dialogo, dove anche la Follia si provi
ad enunciare le proprie ragioni, attirando il folto Pubblico che ama
quasi sempre la Follia.
La proverbiale astuzia del Greci inventava il
teatro per metterci in scena la nuova Ragione di Stato contro l'antica
Ragione Tribale. Il finale del dramma era per forza tragico: la ragione
più anziana alla fine taceva e moriva, soffocata nel sangue. Non c'era
ancora la televisione però il teatro era già obbligatorio, come poi la
Santa Messa per i buoni cittadini, dove comunque, ci scappa sempre un
morto, col sangue che si sparge e poi si beve insieme... corroborando
l'ordine e la moralità.
Jacopone non dispone di un teatro finanziato dallo
Stato, come già fu quello greco e mica il solo. Jacopone mette in scena,
alla buona e forse anche su strada, un dissidio cristiano-medievale fra
Anima e Corpo. Certamente vince Anima ma altrettanto certamente, tutti
in piazza parteggiano per Corpo che è veramente, il Protagonista...
mentre Anima é antipatico, violento e autoritario, come la brava Spalla
di ogni grande Comico. Ma Jacopone da che parte sta? O ha compreso
troppo bene il gioco delle parti?
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